A volte leggere tanti libri è come guardare una partita di calcio. Si possono guardare giocatori che devono prepararsi a lungo prima di giocare in nazionale o di entrare in campo e altri che sono fenomeni della natura e che non necessitano di grandissima preparazione atletica. Così anche nella scrittura ci sono scrittori che han bisogno di ridefinire e riscrivere tante volte prima di mandare il loro lavoro al loro editore, ed altri che invece scrivono con la stessa facilità con cui respirano. Leggendo L’Aleph di Napoli di Silvio Perrella, pubblicato per i tipi della casa editrice Il filo di Partenope, sembra che il nostro appartenga a questa seconda categoria di scrittori e che abbia realizzato le pagine del suo libro come un gatto miagola o un uccello vola. Come se fosse il fatto più semplice del mondo, come se procedesse per istinto senza l’ausilio della ragione.
Il libro è una favola in cui due giovanissimi amanti, Serafino e Mirabella, provano a scalare il mondo del “su” della città di Napoli, essendo loro abitatori del “giù”.
Perrella ha presentato ieri il suo libro presso la sede de Il filo di Partenope a via Costantinopoli 48 in una forma un po’ particolare. Le pagine del suo libro sono state narrate alla finestra del piano superiore dei locali dalla giovanissima attrice Laura Ottieri.
Subito dopo la performance ho avuto modo di avvicinarlo per porgli un paio di domande:
Perrella, lei ha pubblicato il libro dal titolo L’aleph di Napoli. Ma questo “Aleph di Napoli” cosa sarebbe?
“L’Aleph di Napoli è una suggestione che nasce dalla letteratura, c’è un racconto celebre di Borges che si chiama l’Aleph. Mi è sembrato, costruendo una favola in cui c’ è un apologo civile, che l’idea dell’ Aleph, una lettera dell’alfabeto fenicio che può congiungere il su con il giù e può rappresentare bene questa ricerca, questo tentativo, questo “rammendo urbano”, come vien detto nella favola nel quale si prova a congiungere non solo con le funicolari, ma anche con i pensieri e con i corpi, il su e giù della città. Che non è solo una questione geografica. E’ anche una questione sociale, di linguaggio.
L’aleph è un po’ il simbolo di questo possibile congiungimento delle due parti della città ed è anche individuato in un luogo. Una sorta di avanposto semicircolare da cui è possibile vedere con un solo sguardo gran parte della città”.
Quindi esiste a suo avviso una dicotomia fra il su e il giù di Napoli. Come se ci fossero due città in una?
“Io non credo che esistano due città. Credo che esistano tante città. Ma che, contestualmente, la potenza dell’immaginazione napoletana potrebbe congiungerle e il mio desiderio è che questa città, che viene definita “potente senza potere”, si dia il potere del linguaggio. L’aleph è la prima lettera non solo dell’alfabeto fenicio ma l’inizio di tanti alfabeti. Quando i protagonisti del racconto capiscono che possono utilizzare un alfabeto nuovo, un nuovo linguaggio, scoprono una libertà che non sempre era possibile ed è la libertà di raccontarsi con i propri linguaggi. Senza fingere di essere qualcos’altro…”.