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Le fiction, le carceri, i crolli: una riflessione

Man Behind Bars

di Antonio Farese*

[antonio.farese@libero.it]

Negli ultimi anni, gli ambienti carcerari sono ritornati in esibizione sugli schermi, non tanto quelli grandi del cinema. Con il proliferare di fiction ambientate in situazioni ai confini della civiltà, con il richiamo continuo al crimine, da Gomorra al Commissario De Luca, dalle mafie alle squadre anticrimine, per forza di cose molte scene sono girate tra mura carcerarie.

Dovrebbe essere un punto fermo che un regista abbia una conoscenza ampia delle cose del mondo e dell’arte, che sia al passo con i rivolgimenti umani e sappia anche aggiornare il proprio linguaggio ai tempi che corrono. Se c’è un linguaggio che muta lentamente o non muta, è il linguaggio delle fiction, delle miniserie televisive. Non solo è cristallizzato, ma sembra che sia pietrificato l’immaginario dei registi: sono talmente abituati a non osare, in prodotti televisivi, che la loro mente si abitua a non osare, fino ad inaridire le proprie capacità espressive.

In genere, e ancor più da quando qualcuno ha chiuso Cinecittà, le scene girate in carcere sono ambientate in strutture autentiche, quasi mai in studio, con alcune comparse prese tra gli agenti di Polizia Penitenziaria; e le sorprese per registi, direttori della fotografia e sceneggiatori si presentano dal primo sopralluogo. Il discorso che segue è riferito alla situazione generale, senza voler occultare il fatto che molte carceri italiane sono delle vecchie e cadenti topaie se non delle latrine.

Innanzitutto, la prima sorpresa, è trovare pareti perfettamente imbiancate, la cui manutenzione è abbastanza costante e solitamente fatta da detenuti. Immediatamente, gli scenografi chiedono di imbruttire, ingrigire, renderle meno lisce, con pittura e stucco saltati: il carcere deve essere cadente, deve dare il senso di un’esistenza svolta nel brutto. Un carcere con mura limpide, cinematograficamente non funziona: sembra un ospedale, funziona per un ospedale, dà sensazione di igiene.

La seconda sgradita sorpresa arriva nel momento di girare le scene dei colloqui. La domanda ricorrente è: «Dove sono i vetri blindati, che separano i detenuti dai visitatori?». A parte in certi regimi di detenzione, vetri blindati e grate sono stati da tempo rimossi, per lasciare spazio ad una stanza detta «sala degli incontri», con tavoli e sedie sparsi, dove i detenuti possono liberamente incontrare i familiari, averne un conforto fisico; per alcuni, avendo figli in tenera età, non è cosa minima poterli abbracciare. I lavoratori del set mostrano delusione per questa mancanza: il vetro blindato di separazione è un’immagine forte, esibisce immediatamente la distanza tra due mondi che non possono e non devono incontrarsi, ovvero l’immagine che vogliono dare della vita detentiva rispetto all’esistenza in libertà. Spesso, la «sala degli incontri» è arredata con sedie e tavolini di plastica bianca, che esteticamente sono tra il peggio che può essere esibito, soprattutto in ambito filmico dove segni e significati subiscono un’amplificazione. La richiesta di sostituzione di tavoli e sedie è ricorrente. Restano anche colpiti dal fatto che le celle siano spesso aperte, con i detenuti liberi di interagire.

Tra le sequenze-cliché che sono sempre videoriprese: i muri di cinta del carcere all’interno e all’esterno, con le torrette blindate; l’apertura e la chiusura del portone principale, con una volante della polizia che entra; il labirinto di scale e le sbarre (queste sono imprescindibili); i passeggi dei detenuti all’aperto. Recentemente, per una fiction di prossima uscita, un regista (figlio di un più noto regista) ha scelto un’agente di polizia con fluenti capelli rossi come figurante. Girate le varie sequenze, dopo averle riviste, ha tagliato tutto dicendo: «È inverosimile: è troppo bella per essere vera». Ritornano gli stereotipi: non può esistere, nel lerciume del carcere, la bellezza, tutto deve apparire brutto, persino chi ci lavora.

Sinceramente, non so esprimere un punto di vista omogeneo sull’argomento. È probabile che i prodotti filmici italiani siano nel complesso scadenti perché i registi sono troppo lontani dalla realtà per poterla immaginare. Alcuni prodotti televisivi raggiungono la programmazione estera. La percezione che restituiamo agli spettatori di altre nazioni è di fatti nuovi in contesti vecchi. D’altra parte, c’è la consapevolezza che i prodotti filmici abbiano delle esigenze di linguaggio ed espressività fatto di segni che il pubblico possa istantaneamente riconoscere, immagini veloci che in pochi fotogrammi sintetizzino e comunichino tutto. Non è invece giustificabile che il contenuto di queste immagini non riesca a rinnovarsi. Non è possibile, in questo caso, celarsi dietro la povertà finanziaria delle produzioni: grandi innovazioni cinematografiche sono state sperimentate in povertà di mezzi. Manca proprio l’ingegno, l’istruzione per rinnovarsi, forse anche la voglia.

Spesso, le storie di malavita sono ambientate in tempi passati, quando ancora sussistevano una grata e un vetro blindato, quindi devono essere mostrati. A parziale giustificazione dei lavoranti del cinema (cineasti sarebbe dire troppo), c’è da dire che il livello di istruzione e di esperienza-di-realtà del pubblico è ai minimi storici. Non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo: un messaggio, per essere recepito, deve parlare lo stesso o simile linguaggio del ricettore. Altrimenti, come in tanta arte contemporanea, il messaggio resta incompreso.

Da una parte c’è un pubblico impreparato, poco pronto, che vive di nostalgie e vorrebbe come politici e miti i fantasmi del passato; dall’altra c’è l’adagiarsi, l’impoltronirsi di registi e altri lavoranti. Da una parte, non essere istruiti nel terzo millennio è una colpa che la legge dovrebbe punire; dall’altra, dovrebbero essere i registi a scuotere uno spettatore troppo assopito da innumerevoli sollecitazioni massmediatiche che diffondono cose inverosimili del passato e del presente. I registi hanno tutti i mezzi a disposizione per aggiornare l’immaginario, lo spettatore quasi mai e continua a vivere immaginando e abituandosi ad un mondo immutabile.

Per ricreare in video l’oppressione e le privazioni di un carcere, basta molto meno. I fratelli Taviani, con Cesare deve morire, sono riusciti a raccontare tutte le implicazioni della carcerazione con un linguaggio diverso: il carcere fa sentire tutta la sua presenza nonostante sparisca. È invece preoccupante che gli allievi del Centro Sperimentale abbiano girato nel carcere di Scandicci (Firenze) il documentario Sbarre, cavalcando sempre gli stessi invecchiati stereotipi, le stesse immagini retoriche, le stesse interviste soggettive con storie terribili e accattivanti, con una fotografia abbastanza scarsa e una ricostruzione poco narrativa in fase di montaggio; è preoccupante perché dovrebbero portare idee fresche per una rinnovata estetica cinematografica, ma non sono riusciti a distaccarsi dalla solita retorica, pur avendo avuto tutto a disposizione: sono stati portati in giro ovunque, in tutti gli uffici, in tutte le sezioni. Quando è stato presentato in proiezione, a Scandicci, ha ricevuto un bassissimo gradimento dai detenuti, che hanno apertamente espresso critiche e riserve. Attendevano una denuncia vera dello stato delle carceri, qualcuno avrebbe preferito che fossero mostrati i servizi igienici piuttosto che tutto il resto. Alla fine, non si sono riconosciuti in quella descrizione intrisa da una vena di malinconia che edulcora tutto.

Purtroppo, la scelta dei futuri cineasti è sbagliata all’origine; il metodo adottato dal Centro Sperimentale non più sperimentale, per la scelta delle giovani leve, è il solito metodo usato in Italia…proprio il solito. Per rinnovare l’industria del cinema italiano, occorrerebbe ricominciare da zero, o almeno ricominciare da tre… o da qualcosa in più di tre, ma senza salvare troppo degli ultimi quindici-vent’anni. Per inciso: vorremmo dissuadere i registi dal continuare a riprendere i solidi muri di cinta delle carceri italiane perché, alla fine di settembre 2015, ne è crollato uno da tempo pericolante proprio a Scandicci (sarebbe una novità assoluta trasformare in prodotto filmico queste macerie).

[Photo: whipart.it]

* Classe 1974, laureato in Filosofia, professione: fotografo, Antonio Farese è anche critico cinematografico e storico della tecnica cinematografica. Suoi contributi in materia sono apparsi su Cinemasessanta e Quaderni di Cinemasud e nei volumi L’alba del cinema in CampaniaNapoli d’altri tempi (Liguori).

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