I testi di Giovanni Meola hanno sempre diversi livelli di lettura. Sono un gioco di richiami tematici che riprendono, accavallano, superano, ritornano nelle parole e nei gesti dei personaggi, nelle situazioni, nelle suggestioni. È così in un testo come Il sulfamidico, che ho avuto modo di leggere e di tradurre in inglese, dove ingenuità infantile, ricordo, calcio e dramma storico si intersecano in un monologo fatto di richiami, per l’appunto, e di più piani. È così anche ne Il giorno della laurea in scena alla Sala Ridotto del Mercadante.
Anche in questo caso ho avuto modo di leggere il testo de Il giorno della laurea, atto unico a due personaggi (interpretati da Cristiana Dell’Anna ed Enrico Ottaviano, che, non a caso, era anche l’interprete de Il sulfamidico), di assistere ad alcune prove inclusa la generale e, infine, a vedere lo spettacolo vero.
Si tratta di un testo complesso sin dalla carta, ma che credo raggiunge un grado di complessità maggiore, per non dire completa, solo nel passaggio sul palco attraverso le prove. La drammaturgia è una scrittura in itinere e così e anche in questo caso, dove i piani di lettura sono molteplici: una coppia in crisi; il rapporto genitori-figlio (un figlio assente dalla scena); la crisi dei valori del mondo occidentale; il ruolo della cultura; il ruolo del teatro (si parla molto di recita, di finzione, di teatro). Questo solo per citare alcuni livelli interpretativi.
Il giorno della laurea si pone con un testo e poi come uno spettacolo estremamente contemporaneo e allo stesso tempo pieno di splendide eco alla tradizione novecentesca. In un precedente articolo citavo Edward Albee. Lo cito ancora anche alla luce della messa in scena.
La regia e le scelte attuate da Meola, anche regista quindi, sono sapienti, in bilico tra essenziale, stilizzazione, simbolo, ma anche a tratti realistico, con un utilizzo funzionale di luci e musica (Thom Yorke e la classica) e una semplice ma complessa scenografia. Così come intrigante è la scelta recitativa proposta agli e costruita con gli attori. Gli splendidi Cristiana Dell’Anna ed Enrico Ottaviano costruiscono due personaggi che vivono tra realismo e farsa, tra realismo e surreale, tra realismo e simbolo (sono anche simbolo della crisi economica e dei valori che viviamo), e lo fanno attraverso una recitazione gestuale e verbale che passa dalla farsa (grottesca), al realismo drammatico passando, in una mirabile sequenza che apre la seconda parte dello spettacolo, al meccanico pantomimico.
Credo che lo spettacolo, e questo appare chiaro dalla visione, sia suddivisibile in tre parti e non in due come si potrebbe pensare dalla sola lettura (prima e dopo la scoperta della lettera del figlio, lettera che,iin fin dei conti, è un copione, e torna il metateatro.). La parte centrale, quasi un intermezzo, rappresenta il punto fondamentale e con l’espressione chiave ripetuta dalla Moglie e dal Marito (nomi simbolici che identificano i personaggi-ruolo): “I primi tempi”, ovvero “gli unici che possono essere chiamati i primi tempi”, i primi tempi della coppia , quando davvero essi erano Marito e Moglie, in due, e non ancora Padre e Madre. I tempi della felicità.
E il testo-spettacolo è un percorso sull’ossessione del recupero dei primi tempi, un ossessione celata, nascosta dietro la “faccia appesa” della moglie e le battute brillanti tra il “genio e demente” del Marito. È un percorso verso il recupero della felicità attraverso un dramma inaspettato, attraverso un cortocircuito sociale, familiare, attraverso un paradosso, un assurdo, che chiama in causa la crisi dei valori e il ruolo dell’educazione. Sino a un finale disincantato con lo spettatore sconvolto perché comprende che, in fondo, di quel Marito e di quella Moglie, forse, aveva un’idea sbagliata.
[Photo: Profilo Facebook di Giovanni Meola]