Federico Buffa, noto e apprezzato telecronista sportivo, non ha lo stesso valore a teatro. Detto chiaramente. E il suo Le Olimpiadi del ’36, scritto con Emilio Russo, Paolo Frusca e Jvan Sica, risulta uno spettacolo senza infamia e senza lode, troppo lungo e con una serie di difetti che è bene mettere in luce.
In primo luogo, Le Olimpiadi del ’36, al San Carlo il 20 giugno per il Napoli Teatro Festival 2016, appare carente proprio nella sua scrittura, sbilanciato, e il testo è un aspetto fondamentale per il teatro di parola e, come in questo caso, per il teatro di narrazione. Cosa è che non va nello specifico? Sicuramente il delineare i personaggi narrati e il personaggio rappresentato. Si parta da quest’ultimo: Buffa si presenta al pubblico come Wolgang Fürstner, comandante del villaggio olimpico, narratore iniziale, per poi perdersi e tornare ad essere il narratore Buffa in quanto Buffa. Non è una cosa da poco. Buffa è un narratore a posteriori, extradiegetico e onnisciente; Wolgang Fürstner sarebbe stato o avrebbe dovuto essere un narratore, per forza di cose interno e non a posteriori dell’evento, se si considera che egli è morto suicida alla fine delle Olimpiadi (come ricorda una scritta allo spettatore a fine spettacolo, quando probabilmente lo spettatore si è completamente dimenticato del povero Fürstner). Si tratta di due prospettive e di due punti di vista, quello di Buffa e quello di Fürstner, opposti e non conciliabili nel modo in cui lo spettacolo è scritto e costruito.
Si considerino ora i personaggi raccontati. Ne citiamo alcuni: l’architetto Albert Speer, la regista Leni Riefensthal, ovviamente Hitler e Goebbels, il grande Jesse Owens e il maratoneta coreano Sohn Ki-chung. I problemi relativi a questi personaggi si intersecano con il problema principale della scrittura del testo: la volontà di voler dire tutto con il rischio di non dire nulla. E, in effetti, Buffa racconta quanto più possibile le Olimpiadi berlinesi in piena epoca nazista, ma l’affresco che ne scaturisce è dispersivo e senza protagonisti veri su cui lo spettatore possa focalizzarsi. Non è protagonista Speer come non lo è la Riefensthal o Hitler o Goebbels, né tantomeno Owens e Sohn Ki-chung a cui pure è dedicata la seconda parte dello spettacolo. Ma protagonista non sembrano essere neanche le Olimpiadi o Berlino, che si perdono. Buffa non fa una scelta, non seziona e non seleziona e questo è un difetto che si ripercuota sulla drammaturgia (perché è pur sempre teatro), dando l’idea di star facendo semplicemente la presentazione di un argomento. Si pensi a Owens, raccontato per decine di minuti, ma senza focalizzarsi su una contrapposizione davvero fondamentale da un punto di vista teatrale: le reazioni di Hitler davanti alla vittoria dell’atleta americano.
Al di là della scrittura, dubbi vi sono su alcune scelte registiche e di messa in scena. Poco utilizzato, ad esempio, il grande schermo su cui si sono proiettate, ad un certo punto, citazioni di Brecht e altro simili a un power point. Sbagliata è stata una scelta musicale: l’inserimento della bellissima La storia siamo noi di Francesco De Gregori, interpretata dal vivo dalla brava Cecilia Gragnani accompagnata da Alessandro Nidi e Nadio Marenco, è cacofonica e assolutamente incoerente all’interno di una serie di brani musicali d’epoca che prevedono Lili Marlen e Die Moritat von Mackie Messer (assurdamente cantata in italiano).
Ciò che Buffa realizza è il racconto romanzato e aneddotico della Storia, più che teatralizzato, e di fatti alla base vi è il suo romanzo L’ultima estate di Berlino, scritto con Paolo Frusca. Ciò che ne risulta è uno spettacolo nazional-popolare, e non c’è nulla di male in questo, a patto che non vi sia una pretesa di intellettualismo.
[Photo: napoliteatrofestival.it]