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Arte, Libri

La smaterializzazione dell’arte in Italia 1967-1973: un’intervista con l’autrice

arte_smatLa smaterializzazione dell’arte in Italia 1967-1973 della studiosa napoletana Alessandra Troncone, edito da Postmedia Books, si configura come un volume davvero interessante e importante per comprendere l’evoluzione dell’arte e degli approcci espositivi in Italia tra fine anni ’60 e ’70, in un momento fondamentale per la storia delle mostre d’arte. Troncone, ricercatrice presso il Madre di Napoli e docente all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, sviluppa una precisa analisi e ripercorre la storia di alcune esposizioni realizzate in Italia in quel preciso arco temporale, ricostruendone genesi e dibattito critico. Si va quindi da Lo spazio dell’immagine (Foligno) a Contemporanea (Roma), passando per esperimenti quali Teatro delle mostre (Roma) e il Deposito d’Arte Presente (Torino), che nuovi approcci all’evento espositivo, in termini di concezione, allestimento, occupazione di spazi non deputati differenti dal museo.

Incontriamo Alessandra Troncone a margine della presentazione del volume al Madre il 2 marzo scorso, dove sono internuti Andrea Viliani (Direttore del museo Madre), Angela Tecce (Direttore di Castel Sant’Elmo) e Luigia Lonardelli (Curatore MAXXI–Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma).

Un titolo singolare: cosa intende per smaterializzazione?

Il termine “smaterializzazione” in relazione alle ricerche artistiche contemporanee compare negli anni ’60 e, in particolare, nell’articolo che John Chandler e Lucy Lippard firmano nel 1968, The Dematerialization of the Art Object. È una parola che riassume bene il processo in atto nel campo delle arti visive in quel decennio di sperimentazione: gli artisti tendono infatti ad allontanarsi dall’idea di opera d’arte come “oggetto” per sottolineare invece il processo che sottende la realizzazione dell’opera. Sempre più si utilizzano materiali organici, deperibili, che mettono in crisi il concetto di durata dell’opera d’arte nel tempo. Smaterializzazione è anche la performance, con l’opera che si trasforma in azione, sottraendosi quindi alla sua musealizzazione se non in forma di documento fotografico. Tutto questo comporta inevitabilmente un nuovo modo di pensare la critica, il momento espositivo e il rapporto con il pubblico.

L’identificazione dei sei anni dal 1967 al 1973 è molto precisa e prende le mosse da Lucy Lippard. Cosa hanno voluto dire quei sei anni in Italia?

L’Italia in quei sei anni gioca un ruolo di primo piano sul palcoscenico dell’arte internazionale. Nel 1967 Germano Celant conia la felice definizione di “Arte Povera” per identificare un gruppo di artisti che, al pari dei loro colleghi europei e americani, riflettono sulla materia, sul processo. Per questo motivo le mostre italiane diventano un riferimento imprescindibile: basti pensare ad Arte povera + azioni povere, tenutasi ad Amalfi del 1968, che associava alle opere esposte negli Arsenali dell’Antica Repubblica le azioni e gli happenings realizzati dagli artisti nella città, diventando un modello per le grandi esposizioni istituzionali del 1969 a Berna e ad Amsterdam. Ad Amalfi erano presenti anche artisti stranieri, a dimostrazione di quanto la stessa etichetta di “povero” fosse applicabile a livello internazionale, non solo italiano.

Come intende il suo lavoro: un lavoro sull’arte di quel periodo, un lavoro sulle esposizioni o il discorso tra opera ed esposizione risulta inscindibile?

È un lavoro che, attraverso le mostre, cerca di ricostruire il contesto storico-artistico in quei sei anni cruciali. La mostra in questo senso è un punto di osservazione privilegiato: permette una riflessione sulle opere e gli artisti ma anche uno sguardo sull’intero sistema dell’arte dell’epoca. È un intreccio di racconti, il palcoscenico dove si muovono tutti gli attori: artisti, curatori, critici, galleristi, collezionisti, pubblico. Le opere sono protagoniste, ma non sono mai l’unico oggetto di indagine.

Si parla di nuovi approcci espositivi, in termini di concept, allestimenti, occupazione di spazi non deputati. Parimenti avviene anche in altre forme artistiche. Si pensi al teatro che esce dai teatri (il Living ne è un esempio). Esiste ancora un confine tra arti visive, performative e mediali?

Il decennio dei Sessanta è proprio quello in cui si afferma, ormai incontrovertibilmente, che non possono esserci confini tra le arti e le singole discipline. Già le Avanguardie storiche dei primi decenni del Novecento avevano provato a “rompere” le barriere (si pensi al Futurismo), ma la fluidità che caratterizza gli anni ’60 è alla base di tutto quello che oggi è sperimentazione. Le mostre di cui parlo nel mio libro registrano bene questi cambiamenti: la performance, ma anche il video, fanno le loro prime comparse nei contesti ufficiali come media artistici al pari della pittura e della scultura. La maggior parte di queste esposizioni è fondata proprio sulla commistione di linguaggi diversi, in dialogo tra loro: l’obiettivo è mostrare l’assottigliamento del confine tra arte e vita, che è uno degli elementi portanti nelle ricerche artistiche di quel periodo.

Per questo volume ha giocato un ruolo fondamentale il suo duplice background di ricercatore e curatore. Quanto è importante la pratica, quell’essere un “practitioner” (usando un termine inglese) per poter fare ricerca sull’arte?

Studiare le mostre storiche prevede un lavoro di ricerca e di archivio, che è finalizzato a raccogliere documenti testuali e fotografici senza i quali sarebbe impossibile ricostruire la storia dell’esposizione. Quando però arriva il momento di “interpretare” i dati, un’ottica curatoriale è necessaria per capire meglio (o provare a farlo) la scelta degli artisti, la relazione tra le opere e lo spazio, la visione del curatore. In questo è sicuramente d’aiuto l’allenamento dello sguardo e l’esperienza pratica nel progettare e realizzare una mostra.

Come identificherebbe le tendenze espositive contemporanee? Crede ci sia una mostra che possa aver dettato una linea per il futuro?

Oggi è difficile identificare una linea guida delle tendenze espositive contemporanee. Gli anni ’60 e ’70 hanno rappresentato un momento di rottura, di sperimentazione, e questo si riflette chiaramente nelle mostre di quel periodo. La grande differenza è probabilmente che all’epoca, pur nella diversità delle singole poetiche, c’era un sentire comune, uno Zeitgeist, che le mostre restituivano precisamente, non solo attraverso le opere ma proprio attraverso le scelte espositive. Oggi il panorama complessivo è frammentato, frastagliato, troppo complesso perché una mostra sia in grado di suggerire “lo spirito del tempo”. O forse, lo spirito del nostro tempo è proprio nella frammentarietà, nella discontinuità, nel complesso rapporto tra locale e globale. Per questo un punto di riferimento importante sono le grandi rassegne internazionali che tentano di offrire uno sguardo generale sulle tendenze artistiche e curatoriali: basti pensare all’ultima edizione della Documenta di Kassel di Carolyn Christov Bakargiev o alla Biennale di Venezia del 2013, curata da Massimiliano Gioni. Sono sicuramente degli esempi da cui si partirà, un domani, per leggere l’arte degli anni dieci del Duemila.

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