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Il romanzo, il lavoro e la fabbrica: narrazioni a confronto – Intervista a Gianmarco Pisa

A cura di Pino Distefano

Da qualche mese è uscito nelle librerie il volume “Lamiere. La Letteratura tra Fabbrica e Città. Studi sul Romanzo Industriale in Italia”, cui hanno collaborato studiosi e ricercatori di letteratura e di economia, curato da Gianmarco Pisa e uscito per i tipi della casa editrice napoletana “Ad est dell’equatore”.

L’intento di questo lavoro è di raccontare della letteratura e dell’industria, provare a sciogliere il “nodo” della rappresentazione letteraria del mondo della fabbrica, e farlo, in definitiva, nella cornice di un’analisi critica, scientifica ma non specialistica. L’impegno che ne consegue esige di approfondire la lettura dei testi narrativi e dei saggi critici, di affrontare la prova della ri-costruzione del testo letterario e, non meno importante, di sbrogliare la matassa di una letteratura critica, che passa attraverso le monografie, le riviste e gli interventi tematici, di cui non solo non esiste organica ri-costruzione critico-bibliografica, ma della quale soprattutto non si rinviene eco nell’attualità.

Basti ricordare pochi esempi, tra quelli su cui il volume ampiamente si sofferma: “Il Politecnico” a partire dal1945, l’“Almanacco Letterario Bompiani”, “Delta”, inaugurata nella nuova serie nel 1952, “Il Verri”, “Il Menabò”, in particolare con i fondamentali monografici n. 4 del 1961 (“Letteratura e Industria”) e n. 5 del 1962 (che ne prosegue la riflessione con ulteriori contributi), “Paragone” e “Aut-Aut”, “Il Dramma” e “Sipario” a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, passando per le riviste aziendali, segnatamente la “Civiltà delle Macchine” di Finmeccanica, “Il Gatto Selvatico” dell’ENI, la rivista della “Pirelli”, forse la più esemplare nella sua parabola storico-culturale che non a caso, dipanandosi tra il 1948 della ri-costruzione post-bellica e il 1972 della transizione taylorista, finisce quasi per testimoniare simbolicamente il passaggio da una fase alla successiva dello sviluppo industriale e, di conseguenza, da un motivo ad un altro della storia del rapporto tra letteratura e industria nel nostro Paese. Un excursus ampio e ambizioso da Ottiero Ottieri a Goffredo Parise, da Paolo Volponi a Primo Levi, da Luciano Bianciardi fino ai giorni nostri.

D.: L’autore, insieme con Giuseppe Distefano e Christian Gemei, tra i contributor di questo volume, si era già sperimentato in una precedente iniziativa editoriale: “Cercando Pasolini… Trent’anni dopo”, per i tipi della casa editrice “La Città del Sole” di Napoli. Qual è il filo di continuità che lega la riflessione su Pier Paolo Pasolini a quella sulla c.d. “letteratura industriale”?

R.: Sono molte le tracce che legano la riflessione su Pasolini a quella sulla letteratura industriale e  la narrativa del lavoro e della fabbrica. Tale “continuità” può apparire certamente più nitida se si considera la “tesi” argomentata e sviluppata nel volume dedicato a Pasolini quale creatore della “poesia civile di sinistra” in Italia, secondo l’acuta e penetrante intuizione di Alberto Moravia. Termini questi che hanno già in nuce questa ipotesi di continuità, in forza della quale la letteratura industriale si impone come capitolo saliente della letteratura critica e di impegno civile nel nostro panorama letterario e si manifesta come espressione culturale del portato delle lotte che pure avevano attraversato il nostro Paese in una fase decisiva della transizione dall’Italia pre-repubblicana e paleo-industriale a quella repubblicana e industriale.

D.: Quali sono le motivazioni che ti hanno e vi hanno spinto a scrivere “Lamiere”?

R.: Come tutte le opere collettive (sono ben dodici gli autori coinvolti nella nostra ricerca: da Stefano Mollica, che ha curato la prefazione, a Silvio Perrella, che ci ha regalato una splendida post-fazione, passando per Ugo Marani e Giuseppe Zollo, Giovanni De Falco e Vincenzo Esposito, Christian Gemei e Marco Viscardi, fino a Matteo Palumbo e gli splendidi, inediti, contributi poetici di Pino De Stasio), anche “Lamiere” è frutto di una esigenza avvertita in maniera condivisa da tutti: da una parte, esplorare il nesso che esiste tra la “fabbrica”, in quanto centro, per una lunga stagione storica e sociale, del lavoro e la “società”, nella lunga transizione italiana dalla ricostruzione allo sviluppo; dall’altra, indagare una vera e propria “zona d’ombra” della letteratura italiana del secondo Novecento, ricchissima di esperienze e di fermenti, letterari e culturali, ma che per troppo tempo è rimasta nel dimenticatoio o riservata alla ricerca specialistica e “di nicchia”.

D.: Si tratta, all’interno del volume, di veri e propri “autori dimenticati”…

R.: …e questo pone un interrogativo che grava non solo sulla coscienza critica ma anche sull’istruzione scolastica. Sia nella recente partecipazione del volume alla prestigiosa rassegna letteraria del “Premio Gutenberg”, in Calabria, sia durante le iniziative di presentazione, ad esempio, presso le scuole, si impone sempre una riflessione sul perché autori così decisivi, sia dal punto di vista della evoluzione del romanzo sia sotto il profilo della innovazione delle forme narrative, possano rimanere sostanzialmente sconosciuti, non dico al grande pubblico, quanto in primo luogo agli studenti dei Licei e, troppo spesso, dei Licei classici. A fronte di una, recentissima, ripresa di interesse verso il “tema” e il “problema” della letteratura industriale, si scontano anni di oblio, come se, ad esempio, gli scrittori cosiddetti “olivettiani”, in primo luogo Ottiero Ottieri e Paolo Volponi, non rappresentino dei veri e propri giganti nel nostro panorama letterario. In tutti questi scrittori, peraltro, l’esercizio della cosiddetta “scrittura industriale”, pur con sfumature di volta in volta diverse, è sempre concepito come una modalità di lettura e di interpretazione del mondo e della società ed un tentativo di indagare sé stessi e la propria collocazione, sovente problematica, di fronte ad un mondo, quello della società industriale, per molti aspetti controverso e sfuggente.

D.: Fin qui abbiamo parlato sempre di “letteratura industriale”. Ma, se esiste ancora la “letteratura”, è possibile parlare di una vera e propria “letteratura industriale”?

R.: Quello dello statuto, dei limiti e delle forme della cosiddetta “letteratura industriale” è un interrogativo che ci siamo posti, che ci ha posto in particolare Silvio Perrella nella sua acuta riflessione in post-fazione, e che ovviamente, non abbiamo potuto “risolvere” al nostro interno. Chiaramente, essendo, di per sé, una ricerca pluralistica, aperta e problematica, il nostro volume non solo non fa mistero di questa “ambivalenza”, ma dichiara esplicitamente l’irresolutezza del problema. Da una parte, tutti e soli questi autori sono passati alla storia della nostra letteratura e hanno informato la parte più significativa della propria produzione narrativa e del proprio intervento culturale nel dibattito pubblico ai temi delle contraddizioni sociali, dell’industria e della letteratura a confronto con le problematiche civili, sociali e del lavoro. Dall’altra, quella “industriale” resta pur sempre una “parentesi”, ancorché decisiva, all’interno della loro esperienza letteraria, né questi autori hanno mai inteso codificare la propria vicenda letteraria come vicenda “letteraria-industriale” tout court. Abbiamo tuttavia una serie di “grandi” (autori e romanzi) che si confrontano, nell’arco di tre generazioni, con altrettanto “grandi” questioni (il lavoro e l’industria) e ciò consente l’individuazione, se non di una vera e propria letteratura industriale, certo almeno di consapevoli “scritture industriali”.

D.: In definitiva, quale “immagine” esce, dal volume, di questi due mondi, quello della letteratura e quello della classe operaia all’interno delle produzioni letterarie o della produzione industriale?

R.: Come ambivalenti sono le matrici e le ispirazioni di questi romanzi, così controversa e problematica è l’immagine della società italiana, del lavoro e dell’industria, che viene fuori da queste opere. Da una parte, negli autori propriamente “olivettiani”, si avverte una sorta di “celebrazione illuministica” dello sforzo riformista teso alla fabbrica nuova, alla nuova idea di “Comunità” e alle nuove ipotesi di partecipazione civica e di coinvolgimento culturale degli operai proposte da Adriano Olivetti. Dall’altra la fabbrica resta un luogo disciplinare, in cui si esercitano le forme e gli strumenti del “comando” e del “controllo” capitalistico e che pure riesce ad informare di sé un vero e proprio tessuto di rapporti sociali, dentro e, per certi aspetti, soprattutto, fuori la fabbrica. Resta, in definitiva, un’immagine della fabbrica come luogo di una vera e propria narrazione, storica e sociale, personale e collettiva, e della letteratura come strumento di indagine e di conoscenza e, più complessivamente, come straordinario vettore di espressione delle manifestazioni civili e culturali che l’universo di fabbrica, in una stagione non breve della nostra storia, ha saputo definire e produrre.

Per altre info:

http://www.adestdellequatore.com/2012/11/lamiere-a-cura-di-gianmarco-pisa/

 

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