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Cultura, Musica

DIVINA BERTÈ

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A settanta anni Loredana Bertè sembra esprimere una energia più potente che in gioventù. Qual è il mistero di questa energia?

Loredana Bertè appare a Sanremo e tira fuori una raucedine che incanta. La sua voce sembra uscire da qualcosa che non è più nel suo corpo, ma molto al di sotto. Scopre suoni crudi, privi di copertura, stacca note storte con precisione. Il suo medley contiene canzoni che narrano la sua storia: Il mare di inverno, Dedicato, Non sono una signora, Bellissima, e, infine, l’ultima: Figlia di Loredana. Sono 5 minuti di graffi e carezze.

Da un po’ di tempo va così. Bertè piace. Acquista sempre più fama. Firma successi. La chiamano in tv. Un fenomeno insolito per un personaggio femminile che ha perso il suo aspetto venereo, che ha una storia di alti e bassi, di cadute nell’oblio o nella svagatezza. Arriva in scena barcollando, in minigonna, con la sua lunga chioma blu sintetica, addobbata con farfalle. Facile bersaglio di sarcasmo, ma lei non sembra curarsene.

Forse perché libera di non piacere, comincia ad avere carisma invincibile. Carisma di dea.

Il suo trucco e parrucco è quello di una divinità arcaica, una maschera, attraverso la quale parla l’energia di uno spirito che non prende ordini. Della donna Bertè, fragile e umana, conosciamo la storia, ma quello che ci interessa di più è di come la Bertè ospiti la dea, la onori e le renda i suoi servigi.

Ma quale dea incarna?

Sicuramente Afrodite, dotata del tocco creativo di Eros, che non si cura di avere un marito. Una Afrodite che invecchia, conservando il suo spirito, che non si veste ma si addobba: raro arrivare a tale nudità. Ma anche una Era, tradita dagli uomini che ama. O una Persefone, figlia di Demetra, che in gioventù si è lasciata rapire con docilità. Ma anche Artemide, impavida, che va a caccia, circondata dalle sue amiche ninfe, e che non si lascia distogliere da niente, perché conosce la sua strada.

Ma più di tutte, ora, a settanta anni suonati, Bertè prende le sembianze di una divinità arcaica degli albori. Con le farfalle in testa, che evocano madre natura in versione pop, Bertè incarna una Grande Madre semi sacra e dissacrante, creatrice e distruttrice. Quando canta, tocca le corde del cuore, ma anche corde arcaiche, vicine all’animalità.

Nell’ultima canzone, densa di suoni elettronici, si muovono presenze selvatiche, e oscure, che non avvertono il bene e il male come opposti: “il capobranco di queste iene/ ti ho fatto male però per il tuo bene”; l’autobiografia trova spazio per significare altro: “Ho fatto invidia e ho fatto pena/ho fatto tutto tutto da sola/ lo senti il graffio lungo la schiena”.

Il segno lasciato dall’animale ritorna, totemico, nelle sue canzoni, come nei suoi video. Un paio di anni fa, in un video animato, il suo avatar si trasformava in pantera. Nella ultima canzone “figlia di Loredana”, un baluginare di immagini emerge dal buio, come gli occhi della pantera. Il graffio lungo la schiena potrebbe essere quello di un’orsa o di una pantera. In un verso, buttato lì, canta “un animale non mangia un animale sbrana”. E poi il ritornello: “Sono il padre delle mie carezze / E la madre delle mie esperienze /Sono figlia di uan certa fama /Sono una figlia di Loredana”.

Siamo in ambiente pop: la gag “sono una figlia di Loredana” è un doppio senso catchy e una provocazione. Ma chi può essere “il padre delle mie carezze”? “la madre delle mie esperienze”? Anche nel pop, se chi canta ha anima, troviamo fossili del sacro arcaico.

Bertè ormai non parla più di sé. Il parlare della sua biografia è un pretesto. Attraverso la voce Bertè scava nel terreno dei miti. La sua vita già non le appartiene. e lei, lasciando che la dea parli attraverso di lei, come una sciamana, menziona nelle sue canzoni tutti i simboli della Dea: orsi, pantere, iene. Bertè non appartiene a Bertè. Bertè fa cantare la dea arcaica, da cui, finalmente si è lasciata possedere.

Sto parlando strano. Ma poi neanche tanto.

Un’ artista, quando si lascia andare alla voce che sente dentro di sè, dà risonanza a forze che la sovrastano. Ecco perché Bertè incute rispetto, nonostante l’aspetto apparentemente grottesco.

Si avverte in lei uno spirito che è andato oltre le forme. O che quelle forme interpreta in modo intuitivo, animalesco: la capigliatura blu ne è il raffinato segno tribale. Bertè dà voce in età più che matura, a uno Ur-schrei, un urlo primigenio, roco, che veicola quello che un tempo doveva essere all’origine del canto: emozioni allo stato greggio, quelle che il sistema nervoso dei Neanderthal non poteva trattenere.
Forse ne è valsa la pena non essere una signora.

Photo: ansa.it

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