Il primo novembre scorso se n’è andato anche Carlo Giuffrè. Avrebbe compiuto novant’anni fra un mese. Nato a Napoli nel 1928, è stato un pezzo molto importante del teatro, dello spettacolo e della cultura napoletana, prima ancora che artista di respiro nazionale. Aveva cominciato a fare teatro insieme al fratello maggiore Aldo nel 1947 e a quel teatro si era dedicato con così tanta passione che Eduardo stesso avrebbe voluto considerarlo il suo erede, definizione che però Carlo si era affrettato a rifiutare. Una responsabilità troppo pesante, aveva detto. Effettivamente, Giuffrè ha lavorato spesso sull’opera di Eduardo, e proprio negli ultimi anni aveva portato in scena Questi Fantasmi, commedia del 1954 considerata tra le opere fondamentali del maestro. Attore versatile e acuto, per lui la grande opera d’arte non aveva tempo, era elemento universale ed era quella che il teatro impegnato ha sempre continuato a recitare, da Shakespeare passando per i grandi autori francesi fino a Eduardo de Filippo. Attore di cultura e dotato di un bel carisma personale, si era diplomato all’Accademia nazionale d’arte drammatica, iniziando poi a lavorare in teatro proprio con il fratello Aldo. Appena due anni dopo la coppia è già al debutto con Eduardo, con il quale da quel momento cominceranno una lunga e fruttuosa collaborazione.
Nel 1963 Carlo Giuffrè entra nella Compagnia dei giovani insieme a Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Romolo Valli ed Elsa Albani, con i quali resterà con per otto lunghi e intensi anni. Insieme rappresenteranno molti testi fondamentali, come Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, Tre sorelle di Cechov ed Egmont di Goethe.
Una carriera intensa, quella di Giuffrè, che ha lavorato con i più grandi autori del cinema e del teatro italiano, da Eduardo, per l’appunto, a Mario Monicelli, da Mario Mattoli a Roberto Rossellini, da Camillo Mastrocinque a Vittorio Caprioli, da Pietro Germi a Luciano Salce, e la lista è ancora molto lunga.
Negli ultimi tempi era diventato però piuttosto critico sulla qualità del panorama artistico italiano e, più specificatamente, napoletano. In un’intervista del 2012 aveva dichiarato che per lui non esisteva quasi più niente di memorabile, né di magnifico, e aveva chiesto con tono volutamente provocatorio al giornalista che aveva davanti se conoscesse qualcosa di più grande del Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello o di Napoli Milionaria di Eduardo de Filippo. Aveva sottolineato che da almeno trecento anni ormai si recitava “teatro d’altri”, che da dopo Goldoni per la precisione, non c’era più una vera e peculiare identità teatrale. E aveva anche espresso un’opinione triste ma purtroppo vera: noi, il pubblico, oggi ci accontentiamo di qualcuno che ci faccia ridere, ma ci basta una risata leggera, inconsistente, volatile, con poco o nulla dentro che ci faccia fermare un attimo a pensare o a riflettere su un’idea. In effetti, è vero che senza la grande comicità dolente, quella pura dei comici della commedia dell’arte, la cultura, anche comica, frena. Senza il dolore, la fame, la miseria, il freddo c’è poco da dire, ci sono miseri dettagli da raccontare. Eppure Molière una volta aveva detto di dovere tutto al teatro italiano, perché i grandi attori, così come i grandi autori italiani, in fondo, c’erano e ci sono sempre stati, e sono proprio loro, gli italiani, ad aver inventato la maggior parte dei generi, dall’avanspettacolo fino alla sceneggiata.
Uomo di grande energia e passione, Giuffrè è salito sulle tavole del palcoscenico quasi fino alla fine. A teatro prendeva e riprendeva, aggiornava e rivedeva con forza e dinamismo dando sempre il massimo negli spettacoli. Grande estimatore del teatro di Eduardo che denunciava i mali della città così come quelli dell’animo umano con un filo costante di speranza (battute come Ha da passà ‘a nuttata ne sono la chiara evidenza) per un futuro migliore senza luoghi comuni e retorica, ma con il sogno di una condizione preferibile per tutti. L’umanità, la capacità di saper raccontare attraverso la qualità della narrazione teatrale, il silenzio, le pause, la mimica facciale, la grande gestualità drammatica ma talvolta comica: tutto ciò rappresentava per Giuffrè l’anima del teatro originale.
Innamorato di Chaplin e Petrolini che per lui, insieme all’adorato Eduardo, rappresentavano la vera comicità, quella addolorata e straziante, quella capace di esprimere un sentimento pur non essendo la vera comicità assoluta. Per lui invece proprio questo era l’umorismo, non certo la barzelletta alla Bramieri, quella epidermica, quella di pancia per intenderci. Aveva disapprovato anche Roberto Benigni, con cui nel 2002 aveva fatto un film, Pinocchio. che aveva definito “bruttissimo”, nonostante lo avesse fatto. E anche per Napoli aveva avuto parole dure, ponendo l’accento sulle mille difficoltà di una città perennemente in ritardo che rendevano impossibile farla tornare a essere la capitale mondiale della cultura di secoli addietro. E giù a dire che non c’erano più Di Giacomo, Russo, Bovio, Valente, Leopardi, Benedetto Croce. Pochi oggi i personaggi importanti, poca l’attenzione a ciò che veramente serve a rendere il pubblico appagato. Ma in fondo poi è così dappertutto, oggi, non solo a Napoli. La cultura è morta.
Sui social il dolore di colleghi, ammiratori e amici. “Addio a Carlo Giuffrè. Con lui e Luigi cala definitivamente il sipario sul teatro napoletano di tradizione” scrive Nello Mascia, regista e attore. “Quaranta anni di vita teatrale passata insieme” ricorda Lucio Mirra del teatro Diana. In compagnia con il fratello Aldo, Carlo ha avuto grande successo con commedie come Il piacere dell’onestà, Pane altrui, Miseria e nobiltà e Il medico dei pazzi. Poi le strade si erano divise ma i Giuffrè’, se pure diversissimi, erano rimasti una cosa sola nella storia del teatro napoletano, e non solo. In teatro è stato anche regista di notevoli allestimenti eduardiani tra cui Le voci di dentro, Non ti pago e Natale in casa Cupiello. E l’ultima volta sul palcoscenico è stata nel 2015 con La lista di Schindler, adattamento teatrale del film culto di Steven Spielberg.
Carlo Giuffrè ha lasciato il suo personalissimo segno nel teatro attraverso il suo prezioso stile sottile, lucido e talvolta volutamente patetico. Eppure la Rai, che dovrebbe sempre essere custode della prestigiosa cultura italiana, non è stata troppo generosa nel momento della sua scomparsa e, diciamo, anche prima. Pochi passaggi televisivi, pochi ricordi scarni, qualche notiziola qua e là. Al cinema, invece, l’ultima apparizione è stata in Se mi lasci non vale di Vincenzo Salemme (2016), mentre nel 2007 aveva ricevuto il titolo di Grande Ufficiale dal presidente della Repubblica Napolitano. “Se non ci fosse stato il teatro, non avrei saputo fare altro”, aveva più volte dichiarato. “Il teatro è la mia vita. A casa barcollo, m’ingobbisco, mi annoio, è in teatro che ritrovo il passo. È un’altra storia, perché in scena si guarisce. E poi sapete che vi dico: gli attori vivono più a lungo, perché vivendo anche le vite degli altri, le aggiungono alle loro”. Ma te ne sei comunque andato, perché prima o poi questo momento arriva per qualunque carattere. Allora ciao grande Carlo, meraviglioso pezzo della nostra storia culturale e umana.
[Fonte foto: web]